martedì 31 gennaio 2012

Socialità e partecipazione nell’era di Facebook



Già nel già lontano 2006 la copertina del Time raffigurava un computer come fosse uno specchio e proclamava l’uomo dell’anno : YOU.
Sì, ognuno di noi. Sorge spontanea la domanda, per you si intende quello che ciascuno di noi dice di essere o quello che google dice che noi siamo?
Si tratta della mia identità reale o del mio profilo Facebook?
Nel 2006, infatti, era difficilmente ipotizzabile ciò che qualche anno dopo sarebbe successo.
Sarebbe sorto dal nulla il terzo Paese più popoloso al mondo, con circa 800 milioni di abitanti. Su un social network.
Internet da semplice strumento di ricerca si è trasformato in mezzo di comunicazione. E’ nato il web 2.0.
Ogni uomo oggi è disposto a spogliarsi di una parte della propria sfera privata pur di stare con gli altri: posta, tagga, commenta, condivide, esprime il suo gradimento attraverso un “mi piace”.
E’ addirittura riuscito ad andare oltre la virtualità e a modificare la realtà. Ha riempito grazie al web le piazze svuotate dai più feroci regimi dittatoriali. Ha acceso la Primavera Araba.
Tutto ciò mentre la tv non poteva far altro che osservare, registrare e commentare, scavalcata dal nuovo ma contemporaneamente, e questo è davvero imperdonabile, anche dal vecchio.
Da quella dialettica di piazza che aveva voluto surrogare nei talk-show e monopolizzare nei pezzi di repertorio di opinionisti di professione.
L’io, il cittadino, si è ripreso la possibilità di contare. E nel frattempo ha rafforzato la democrazia rivitalizzando istituti troppo spesso dimenticati come il referendum.
Attenzione però ai facili entusiasmi. Attenzione a specchiarsi troppo in questo schermo. Attenzione a pretendere la rete come diritto.
I contenuti, le conoscenze sono solo un aspetto di Internet. Caparezza con una metafora è riuscito a cogliere il nocciolo del problema.
“La rete non è Che Guevara anche se si finge tale” canta il rapper di Molfetta in un suo pezzo.
Il web ha come controindicazione un capitalismo ancor più opprimente. Porta inevitabilmente con sé la manipolazione della personalità, può costringerci a guardare in quello schermo un volto che non abbiamo, un profilo non nostro e convincerci ad accettarlo. Per offrirci una pubblicità su misura, prodotti a cui non sapremmo rinunciare. Continua Caparezza: “al primo posto nella classifica digitale che tu ci creda o meno c’è solo chi vince i talent”.
Tanti tra coloro che adoperano
Internet lo fanno come riflesso delle loro scorribande televisive. In molti casi è proprio per assomigliare ai volti noti del (sempre più) piccolo schermo che aggiornano ossessivamente i loro profili Facebook. Caricano centinaia di foto delle loro feste quasi fossero scatti di paparazzi, i loro post assomigliano alle risposte di una interminabile intervista di un giornale scandalistico. Un’autobiografia in progress.
Il rischio è a questo punto diventare networker people. Persone che si limitano ad inviare e ricevere informazioni. E provare orrore della “ricaduta nella prigione della carne” come afferma W. Gibson.
Internet è uno strumento prezioso. Appunto è uno strumento, un mezzo. Il suo obiettivo non può essere la creazione di un unico grande Paese virtuale di uomini in simbiosi con le macchine.
Piuttosto deve essere il modo, l’unico possibile ormai, per rivitalizzare gli istituti impolverati della nostra democrazia. Giornali, partiti, piazze, teatri, parlamenti. Nessuno strumento virtuale, neppure fosse perfetto, può sostituirli. Perché come cantava Gaber, libertà è, innanzitutto, partecipazione. Partecipazione reale.
di: Nicola Cicciarelli


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